Breve storia delle Ferrari Bianco-blu e di Indy
Accennavamo l’altro ieri alle contrapposizioni che in più di una occasione hanno visto la Ferrari in aperto contrasto con le Autorità sportive, culminate con la minaccia – più o meno velata – di abbandonare la Formula 1, eventualità diplomaticamente richiamata nei giorni scorsi da Mattia Binotto riferendosi al tema del budget cap (“non vorremmo essere messi nella condizione di dover considerare altre opzioni per liberare tutto il potenziale e il DNA racing della Ferrari.”).
Era questa una argomentazione cui il Drake amava ricorrere in presenza di un qualche attacco alla preminenza politica della Ferrari; sempre l’altro ieri ricordavamo due stagioni (1964 e 1985) caratterizzate da queste battaglie con le autorità sportive che vale ora la pena approfondire.
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Sino all’avvento massivo degli sponsor, le monoposto delle varie squadre venivano verniciate con i loro colori nazionali (rosso per l’italia, verde scuro per la Gran Bretagna, azzurro Francia indovinate per chi, argento per la Germania negli anni ’50, azzurro/giallo per l’Argentina e così via).
Allora le scuderie e relativi piloti, si impegnavano nelle più svariate categorie (monoposto in F1 e non solo, Sport, Sport prototipi e Gt nel Campionato Mondiale Marche, Europeo della Montagna, tanto per citare i campionati più noti).
E questo ci porta al punto: nel 1962 la Ferrari cercò, riuscendoci, di far omologare la splendida berlinetta 250 GTO nella categoria GT; anche quest’auto aveva poco da spartire con le pur spinte 250 GT SWB che l’avevano preceduta e all’epoca rappresentava la più sofisticata e tirata interpretazione di una GT stradale: telaio derivato da quello della 250 SWB a sua volta riadattato da quello della Sport Testa Rossa, sottilissima carrozzeria in alluminio, motore 3.000 cc da 300 cavalli, rifiniture zero e via cantando. Una vettura bellissima poi consegnata alla storia anche per la nebulosità, divenuta poi leggenda, che avvolse la sua procedura di omologazione.
Ed eccoci al mistero che circonda la procedura di omologazione: per soddisfare gli standard stabiliti dalla FIA, era necessario rispettare non solo i requisiti tecnico-formali ma anche esibire materialmente ai suoi ispettori 100 vetture stradali. E quando questi si presentarono a Maranello per il controllo, sembra, non si sa, si dice che le vetture prodotte, da allineare di fronte ai rappresentanti della FIA, non fossero sufficienti.
Fonte http://www.motoristorici.it/raduno-delle-ferrari-250-gto/
Fonte: I love GTO, Ed. First (Mondadori, Libreria dell’Automobile) 1984
Viene da dire che la Ferrari riuscì, con tipica fantasia italica, a far vedere alla FIA lucciole per lanterne e, infatti, agli ispettori si dice sia stato mostrato un primo lotto di vetture poi spostate, durante una pausa caffè, in altra parte dello stabilimento: morale sembra che le medesime vetture siano state contate due o tre volte…
Altra storia è quella della tesi in cui Ferrari sosteneva che la GTO fosse una semplice evoluzione della SWB con, sembra, conseguente emissione di numeri di telaio non sequenziali.
D’altra parte va anche detto che a quei tempi comportamenti del genere venivano adottati anche da altri costruttori; diciamo che l’epoca d’oro dei Campionati GT e Sport viveva anche su questa atmosfera alla «amici miei» che ha contribuito a creare quella confusione fra fatti e misfatti, ingenuità e furbate, imprese di guida uniche e trovate tecnico-regolamentari brillanti che contribuirono alla mescolanza fra storia e leggenda che rese celebre quel periodo agonistico.
E sempre in riferimento alla supposta confusione fra numerazioni di telaio SWB e GTO e poiché la storia attesta che nessuna GTO fu mai distrutta in gara (39 esemplari prodotti, tutti arrivati ai nostri giorni), risulta interessante ricordare che il prototipo 250 GTO sperimentale che Moss provò a Monza a settembre 1961 derivava da una 250 SWB (telaio n° 2053 GT); una volta terminato il suo compito, la «GTO» tornò ad essere nuovamente la 250 SWB originaria che, dopo un incidente, venne trasformata dal carrozziere Drogo di Modena in una 250 GT con muso stile Formula Uno «Shark nose» e fiancata e coda tronca simili a quelle della GTO; riferiamo inoltre che la «Bibbia» della GTO (Ferrari 250 GTO di Keith Bluemel con Jess G. Pourret, Giorgio Nada Editore, Ed. 1998, pag. 23) informa che la 250 2053 GT di Drogo allora realizzata in esemplare unico venne distrutta nel corso di un incidente a Francorchamps mentre rivediamo una foto di quella che quella che sembra essere la stessa o simile auto su:
http://www.barchetta.cc/english/All.Ferraris/Events/CFSS.97/250.GT.Drogo.3611GT.htm
la cui didascalia evidenzia però il numero di telaio 3611GT; non sappiamo, al momento, se trattarsi del recupero dell’auto in origine incidentata realizzato su diverso telaio oppure di replica su diverso telaio o altro ancora.
Lo strapotere della GTO suscitò forti malumori nelle squadre concorrenti e, come abbiamo visto più su, la FIA, nel 1964, fu molto più rigida per la 250 GT Le Mans, né Ferrari trovò sostegno nell’ACI.
Le polemiche non si placarono e la situazione si ripresentò identica all’ultimo Gran Premio della stagione, in Messico, dove Surtees – sempre su Ferrari Bianco-blu – arrivò secondo vincendo il Campionato del Mondo di Formula Uno.
La Ferrari e Indianapolis
Altro episodio eclatante fu quello della minacciata uscita dalla Formula Uno a favore dell’americana CART: siamo nel 1985 anno in cui il «Drake» si mise in contrasto con la FIA di Jean Marie Balestre che accusò apertamente di gestione approssimata delle sorti della Formula Uno, i cui regolamenti tecnici erano sottoposti a continui cambiamenti; altri elementi destabilizzanti erano la superiorità dei concorrenti della Ferrari e la lotta fra Balestre, lo stesso Ferrari e Bernie Ecclestone per questioni di interessi finanziari legati alla suddivisione di quelli che oggi si chiamerebbero diritti.
Tuttavia esiste un precedente che citiamo brevemente per completezza, esente questa volta da contrasti con le Autorità sportive: nel biennio 1952/53 la FIA riservò, per mancanza di concorrenti in F1, il Campionato Mondiale alle monoposto di Formula 2 da 2.000 cc e la Casa di Maranello, che nel 1951 aveva messo in campo contro le Alfetta la Ferrari 375, si trovò escluso e dovette ripiegare sulla partecipazione alla 500 miglia di Indianapolis il cui regolamento tecnico ammetteva motori da 4.500 cc.
La partecipazione venne spinta con decisione da Alberto Ascari e dalla NART di Luigi Chinetti, già allora importatore esclusivo della Ferrari per il Nord America che intuì l’impatto di immagine sui potenziali acquirenti di vetture stradali.
In realtà Chinetti fece di più riuscendo a convincere Ferrari a mettere in campo ben 5 monoposto 375 F1 riadattate allo scopo, 3 clienti e 2 ufficiali, una delle quali venne incidentata irreparabilmente da Nino Farina durante il Gran Premio del Parco Valentino 1952 a Torino mentre quella di Villoresi vinse.
Ferrari dovette perciò limitarsi a spedire una sola monoposto per Ascari che prima supera l’obbligatorio rookie test e poi si qualifica 19° in griglia di partenza.
Il giorno della gara Ascari risalì fino all’8° posto, ma dopo 40 giri dovette ritirarsi a causa della rottura del mozzo della ruota posteriore destra per essere comunque classificato 31° mentre la vittoria andò al 22enne Troy Ruttman.
Tornando al 1985, Ferrari si buttò nello studio di una monoposto (la «637») per la Formula CART, arrivando alla sua materiale realizzazione ed inviando, nell’estate dello stesso anno, il Direttore Sportivo Marco Piccinini negli USA dove, con l’aiuto della Goodyear (fornitore unico della CART, esattamente come la Pirelli per la Formula Uno di oggi) venne presentato al Team Truesports di Jim Trueman che impiegava personaggi del calibro di Steve Horn, Robert Woodward «Bobby» Rahal e Adrian Newey, progettista delle vincenti March 85C e 86C CART, poi arrivato in Formula Uno con i risultati che tutti conosciamo.
A fine 1985, Jim Trueman e Bobby Rahal approdano a Maranello con la monoposto March 85C-Cosworth DFX arrivata terza nel campionato CART 1985, che lo stesso Rahal piloterà per primo a Fiorano per poi cedere il volante a Michele Alboreto.
Il progetto della Ferrari CART viene nel frattempo affidato a Gustav Brunner, tecnico-progettista di Formula già impegnato prima all’ATS e poi alla RAM. Brunner, affiancato in questa avventura da nomi di primo livello quali Harvey Postlethwaithe e Antonio Bellentani, si reca ripetutamente negli States, assiste a gare del campionato CART, inclusa la 500 Miglia di Indianapolis del 1986 in compagnia di Vittorio Ghidella, A.D. Fiat che legò il suo nome a grandi successi commerciali della Casa torinese, uno per tutti la FIAT Uno.
Nell’estate del 1986 la Ferrari 637 CART, pronta per i primi collaudi, si presenta con un muso, basso e rastremato, da pance laterali ben raccordate e da un lungo studio dell’effetto suolo effettuato proprio sulle pance laterali: un’auto di scuola europea che differisce dalle monoposto americane per la sua maggiore compattezza.
Poiché i regolamenti tecnici CART vietavano la costruzione di telai esclusivamente in fibra di carbonio la «vasca» venne realizzata in Avional ed in composito di fibra di carbonio e Kevlar con sospensioni convenzionali (quadrilateri trasversali, tiranti pull-rod, gruppi molla-ammortizzatore coassiali disposti verticalmente entrobordo) mentre il propulsore era un V8 turbo da 2,5 litri alimentato a metanolo da 690 cv a 12.000 giri/min. alla cui progettazione tornò utile l’esperienza precedentemente maturata all’epoca del turbo in Fomula1; completano il quadro tecnico la lubrificazione a carter secco, la frizione multidisco ed il cambio a 5 marce + RM.
Mentre i collaudi in vista della stagione 1987 proseguono con tanto di ridda di nomi dei piloti papabili fra i quali spiccano Andrea De Cesaris e Bobby Rahal il programma non lascia la sua fase sperimentale mentre Ferrari prosegue in Formula 1.
I contatti tra Italia ed Usa si rarefanno sempre più e la morte di Jim Trueman – 11 giugno 1986 – mette fine ad un’avventura che aveva tutti i presupposti per scuotere la CART e l’intero mondo delle corse di allora.
Gli attuali contrasti in Formula Uno potranno riaprire il capitolo americano?
Nonostante il fascino della sfida e la probabile economicità della categoria concentrata in un continente rispetto ai costi di una Formula Uno geograficamente dispersa, noi pensiamo di no e speriamo di non essere smentiti: Ferrari e massima Formula sono legate al punto da non poterle immaginare disgiunte e questo per la storia e nel proprio, reciproco interesse.
[ Giovanni Notaro ]